Care Amiche e Amici bibliofili
nella prossima conferenza il prof Danilo Falsoni
ci porterà ad una rilettura
dell’Infinito di Giacomo Leopardi
PER UNA RILETTURA DE L’INFINITO LEOPARDIANO NEL BICENTENARIO DELLA STESURA.
Nel 2019 il secondo manoscritto originale del celebre Infinito leopardiano tornerà a Recanati, in una mostra che si terrà a Villa Colloredo: un’occasione succulenta non solo per i bibliofili e gli amanti dei manoscritti, ma anche per una rilettura in termini attuali della poesia forse più nota del Nostro.
E’ bene chiarire che del celebre componimento esistono due manoscritti: il primo, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli1 (fig.1), e il secondo presso l’Archivio Comunale di Visso (MC) (fig. 2); è quest’ultimo quello che sarà esposto a Recanati nel corso dell’anno. Un terzo manoscritto comparve da una raccolta privata nel 2014 e suscitò scalpore mediatico e una serie di discussioni e indagini che culminarono però presto nell’accertamento della falsità di tale copia.2
L’analisi delle varianti dell’Infinito permette ovviamente di entrare nel concreto modus operandi dell’autore, rilevandone le oscillazioni compositive: un rapido confronto fra i manoscritti e l’edizione definitiva dei Canti, secondo l’ultima volontà dell’autore, quella napoletana del 1835, presso l’editore Starita (fig.3)3, non evidenzia grandi cambiamenti e ripensamenti nella stesura del testo, se non in direzione di una maggiore efficacia e coerenza concettuale, con lo spostamento e sostituzione, ad esempio, dei termini indicanti il concetto di infinito.
Nel manoscritto napoletano si rileva innanzitutto la sostituzione di un’espressione ridondante e scialba come celeste confine del v.3 con il più espressivo ultimo orizzonte, mentre al v.4 infinito/spazio diviene interminato/spazio, con un sinonimo che elimina il riferimento esplicitamente diretto all’infinito, pur avendone il medesimo significato (un prefisso privativo più un concetto di limite, di termine), incrementando al contempo un lessico dell’infinità connotatore della riflessione leopardiana.
Se al v. 9 la leggera variazione della preposizione fra in tra ha una funzione puramente fonica, in quanto crea un sequenza parallela di consonanti alveolari sorde (Odo stormir tra queste piante), come al v.12, ben più rilevante è la sostituzione al v.13 dell’arcaico immensitade con infinità e la inversione dell’ordine sintattico della frase, per cui Il mio pensier s’annega diviene il definitivo s’annega il pensier mio, assai più icastico nella posticipazione del soggetto: sostituzione che ritorna anche nel manoscritto di Visso, indizio di ripensamenti dell’autore.
Nell’edizione definitiva del 1835, l’interminato/ spazio del v.4 diverrà il ben più esteso e immaginoso plurale interminati/spazi, in cui le quattro vocali anteriori i, con la luminosità del loro suono, paiono evocare allo sguardo della fantasia una dilatazione di quegli spazi intersiderali, mentre l’infinità del v. 13 tornerà ad essere l’immensità, con l’utilizzo, da parte dell’autore, di un altro termine, come al v.4, costituito da un prefisso privativo che nega il nucleo semantico della parola (in-mensità, dal lat. mensura = misura) che viene così a significare smisurato, senza limite.
Il nostro testo è stato visto per lunga tradizione come una tipica espressione di trasporto romantico sentimentale, di una pulsione puramente spirituale verso un senso vago dell’infinito, un bisogno ineliminabile di un’anima tormentata e quasi oziosa, in cui si esprimerebbe quella caratteristica Sensucht dei romantici europei.
Ebbene, credo che sia innanzitutto necessario sgombrare il campo da questo equivoco, anche per non perpetuare l’immagine di un Leopardi dall’animo perennemente melanconico e proteso oltre la realtà concreta, tutto intento a elucubrazioni metafisiche lontane dalla vita d’ogni giorno: di profondamente e autenticamente romantico, semmai, vi è la figura del poeta solitario in atto di ascoltare se stesso e i moti del proprio animo.
Per comprendere la matrice ideologica più autentica e profonda del componimento scritto nel corso del 1819, bisogna tenere ben presente quelle idee che saranno compiutamente definite e ordinate dal poeta nel luglio del 1820, esposte nelle famose pagine che organicamente costituiscono il nocciolo di una vera e propria teoria filosofica, detta la “teoria del piacere”. Si tratta della rielaborazione personale che Leopardi fece del Sensismo, la cui conoscenza gli derivava dalla lettura di Pietro Verri, autore di un saggio Dell’indole del piacere e del dolore, nel quale il noto illuminista milanese rielaborava le idee del filosofo francese Condillac, autore di un Traité des sensations, pubblicato nel 1754, e che avevano trovato diffusione in Italia attraverso il Verri, il Beccaria, il Pagano e altri intellettuali italiani.4
Ebbene, nella sua teoria, Leopardi afferma esistere nell’uomo un’insopprimibile pulsione verso la felicità, vista sensisticamente, appunto, come coincidente con sensazioni piacevoli, cioè identificata tout court con il piacere. Ma – e questa è l’innovazione teoretica leopardiana – codesto desiderio o pulsione di piacere sarebbe nell’uomo senza limite, cioè “infinito”, il che ovviamente gli impedirebbe la possibilità di raggiungerlo, essendo ogni piacere limitato per durata e intensità (Leopardi usa il termine estensione). Pertanto, tale condizione di frustrazione perenne sarebbe all’origine della inevitabile infelicità dell’uomo, destinato a oscillare fra un desiderio inappagabile, la limitata felicità derivante dalla cessazione di dolori nel corso della propria esistenza o da temporanei piaceri-surrogato di un autentico piacere infinito, come il ricordo, l’attesa, la vita intensa etc., e il sentimento della noia, portato diretto di tale frustrazione, fino a divenire consapevolezza della nullità delle cose, da intendere non in senso ontologico, ma piuttosto gnoseologico, in relazione ai fini eudemonistici dell’uomo5.
E’ chiaro, quindi, che insita nella natura umana è un’inesauribile pulsione verso un’infinita autorealizzazione, possibile solo attraverso l’attingimento di una felicità, purtroppo sempre limitata e insoddisfacente: l’ansia d’infinito, dunque, avrebbe in Leopardi ben poco di spirituale e sentimentale, ma sarebbe fondata sulla ricerca di concrete e assai fisiche sensazioni, le uniche in grado di sostanziare il concetto di felicità, altrimenti astratto e inconsistente: per felicità, il nostro poeta filosofo intendeva qualcosa di ben connotato a livello sensoriale, altro che melenso vagheggiamento di soddisfazioni astratte o sentimentali. Questo ci dà l’idea di quanto Leopardi fosse uomo sensuale, ben diverso dall’immagine tramandata di un povero infelice incapace di gustare la vita, intento solo a crogiolarsi nell’assaporare sentimenti di mestizia, ma anzi uomo disperato per non poter raggiungere una felicità agognata con tutte le sue forze intellettuali e fisiche.
Ecco, allora, la genesi, il principio da cui scaturisce la riflessione su quell’infinito cui l’uomo tende con tutte le sue forze: che può essere anche dilatabile a una lettura metafisico-religiosa, certo, se in quell’infinito così ossessivamente perseguito leggiamo un assoluto come quello di cui parla S. Agostino (inquietum est cor nostrum, donec in Te requiescat): ma sarebbe forzatura filologica e filosofica, legittimissima, tuttavia, per la lettura più ampia d’orizzonte che chiunque può fare dell’opera letteraria.
L’Infinito è stato oggetto di numerose e illustri analisi critiche, da quella di K. Vossler a M. Fubini, a A. Monteverdi a L. Blasucci, 6 per citare solo le più note, che ne hanno sviscerato l’icasticità poetica, quella forza espressiva che gli ha permesso di imprimersi nelle menti di generazioni e generazioni di scolari e divenire emblematico della poesia stessa nell’immaginario collettivo non solo italiano, testo esemplare per la recitazione di ogni attore-dicitore.
La lettura che vorrei farne è tesa a dimostrare la modernità dell’ispirazione leopardiana e il suo carattere classico, inestinguibile, in grado di parlare e commuovere lettori di ogni epoca.
Innanzitutto, che cosa ci colpisce immediatamente alla lettura del testo? che cosa si imprime subito nella mente del lettore-uditore, fin dai primi versi che sono proprio quelli che si scolpiscono nel nostro immaginario?:
Sempre càro mi fù quest’èrmo còlle,
E quésta sièpe, che da tànta pàrte
Dell’ùltimo orizzònte il guàrdo esclùde.
E’ il ritmo, la scansione lentissima e regolare con cui fluiscono le parole dei primi tre versi e che nella loro accentuazione soffermano l’attenzione su quei termini divenuti emblemi di una attitudine affettiva verso quegli elementi naturali: sempre caro, quest’ermo colle, questa siepe, il guardo esclude…, dove ineliminabili alla fantasia poetica sono gli arcaismi come ermo e guàrdo, che non solo non stonano affatto, ma si caricano di una connotazione sentimentale che li rende intimi ad ogni lettore.
Ma sedendo e mirando, interminati |
Spazi di là da quella, e sovrumani |
Silenzi, e profondissima quiete |
Io nel pensier mi fingo; ove per poco|
Il cor non si spaura.
E proseguendo, è ancora il ritmo a colpire, un ritmo che si dilata oltre la misura dei versi con delle spezzature ritmico-sintattiche che quasi materializzano pause di stupore dinanzi all’espandersi dell’immaginazione verso spazi infiniti; e questi enjambements isolano anche graficamente, tra fine e inizio versi, aggettivi e sostantivi di forte portata concettuale, con grande efficacia espressiva: interminati/spazi; sovrumani/silenzi.
C’è una dimensione che va al di là dell’umano, che si avvale di concetti e aggettivi superlativi (in-terminati, sovrumani, profondissima quiete), tanto che il cuore, per poco, non si spaura: mi soffermerei su questo spaurirsi, verbo decisamente arcaico, testimoniato dal ‘300, eppure efficacissimo a rendere l’idea di una paura e sgomento dinanzi al vuoto infinito, a un horror vacui che prenderebbe chiunque, trovandosi abbandonato negli spazi intersiderali.
E quasi il sibilo di questa corsa siderea pare di sentire in quelle sibilanti allitterate: spazi sovrumani silenzi, profondissima, pensier, spaura.
Al v. 8 una pausa fortissima, centrale, che fa coincidere aspetto sintattico-semantico, con la conclusione di un periodo, e quello metrico, con la pausa di un endecasillabo a maiore, dopo l’accento sulla 6^ sillaba, segna anche una forte sospensione concettuale. Il poeta è ritornato, con l’immaginazione, accanto alla sua siepe, distolto dal frusciare delle foglie mosse dal vento: e qui, ai vv.10-11, si verifica un nuovo passaggio della fantasia – il termine è implicito in quel verbo del v.7, mi fingo, nella sua radice etimologica dal latino fingĕre = costruire, con la mente, appunto – che lo induce a paragonare l’infinito spaziale alla voce del vento e quindi a pensare a una diversa infinità, quella temporale:
E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
Ma come avviene questo passaggio concettuale? Attraverso il rumore del vento che fa stormire le foglie della siepe e che lo richiama alla sua condizione fisica attuale, cioè allo spazio in cui si trova e, conseguentemente, anche alla dimensione temporale, cioè il presente della sua meditazione accanto a quella siepe stessa. Così gli sovviene il pensiero dell’eternità, cioè dell’infinito del tempo: si noti che il termine sovvenire significherebbe propriamente ricordare, venire alla mente ma, come fu finemente annotato dal Vossler, “nella intonazione della poesia trasognata, anche il presente emerge come un ricordo”7.
E questo slancio immaginativo si approfondisce e proietta lungamente nel tempo, dà l’impressione di dilatarsi infinitamente grazie all’artificio del polisindeto che prolunga nei versi l’immagine delle categorie del tempo, rallentandone anche il ritmo e concludendosi in un’altra forte pausa interna, anch’essa corrispondente alla pausa metrica di un endecasillabo a maiore:
e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. | Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Come è noto, questi spostamenti dell’immaginazione del poeta sono quasi materializzati dalla variazione dei pronomi e aggettivi dimostrativi, in un vero e proprio andirivieni connotativo dal vicino al lontano e viceversa dell’immaginazione poetica: da questa siepe del v.2 a quella del v.5, da queste piante del v.9 a quello/ infinito silenzio dello stesso verso, a questa voce del v. 10 fino a questa/immensità del v.13 e questo mare dell’ultimo verso. E non si tratta solo di una connotazione immaginativa, ma di una vera e propria esplorazione della psiche, di una traslazione esistenziale, di un immergersi dal contingente limitato e deludente, storicamente e spazialmente, all’assoluto inebriante e consolatorio del senza limite.
La poesia si conclude con il celebre sprofondamento nel mare dell’infinito, senza la forma aferetica dell’articolo nella redazione definitiva, dettaglio puramente grafico, dato che in ogni caso metricamente si verifica la sinalefe: E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Si tratta di un verso che colpisce per la sua lentezza ritmica, che suggella questa avventura dell’animo leopardiano, questo viaggio dell’immaginazione in una sorta di cupio dissolvi consolatoria, in quanto la dimensione dell’infinità diviene relativizzante di ogni contingenza umana, necessariamente limitata, rimpicciolita se non del tutto dissolta nel confronto con quella. Quindi, anche ogni dolore e sofferenza individuale si smarrisce in questo infinito, assimilato metaforicamente all’acqua, a un mare dal quale essere ingoiati: non voglio fare psicologismi, ma indubbiamente questo accostamento con l’acqua colpisce per il carattere mitico-ancestrale che essa ricopre nelle strutture mentali umane, presso tutte le civiltà: la autodissoluzione in un infinito/acqua, in una sorta di elemento primordiale assume quasi il senso di una regressione annichilente.
Più ampia e profonda diviene la prospettiva di tale conclusione se la si riconduce a una considerazione filosofica a cui Leopardi giungerà qualche anno dopo, quando arriverà a identificare l’infinito con il nulla8: allora il naufragio finale dell’io assumerà una valenza decisamente nichilista, un riferimento a un Nulla quale substrato dell’Essere, dimensione inattingibile ma consolatoria, quasi una sorta di enigmatico Nirvana, in una intuizione anticipatrice di riflessioni che troveranno formulazione più esauriente nell’Esistenzialismo del secolo scorso.
Leopardi fu quasi profeta incompreso nel suo tempo di tanti aspetti della crisi assiologica dell’uomo contemporaneo, dell’incrinarsi della fiducia nel progresso economico e nelle fedi politiche e religiose9 – ma la società occidentale per arrivare a questo dovrà aspettare l’affermarsi del Positivismo e il suo declino – ed oggi ci appare solitario anticipatore del nichilismo contemporaneo, come è stato notato negli anni più recenti da alcuni studiosi10, ma come già apparve lucidamente a Nietzsche sullo scorcio del secolo scorso.
Brescia, gennaio 2019
Danilo Falsoni
1 Biblioteca Nazionale di Napoli, Segnatura C.L.XIII.22. Sito ufficiale www.digitale.bnnonline.it/index.php?it/121/linfinito-1819
2 Manoscritto de L’Infinito, spunta un’altra copia/629964/ in
https://www.cronachemaceratesi.it/2015/03/07/manoscritto-delinfinito…/629964 ; Falso l’Infinito di Leopardi: la perizia scioglie i dubbi, in https://www.cronachemaceratesi.it/2015/05/20/falso-linfinito-di-leopardi-la-perizia-scioglie-i-dubbi/659203. Anche la stampa di tiratura nazionale si occupò della vicenda.
Per altri manoscritti leopardiani rivelatisi in passato apocrifi, cfr. S. TIMPANARO, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CXLIII, 1966, pp. 88-119 e A. MONTEVERDI, La falsa e la vera storia dell’Infinito, in ID., Frammenti critici leopardiani, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli 1967.
3 Canti di GIACOMO LEOPARDI, Edizione corretta, accresciuta e sola approvata dall’autore, Napoli, presso Saverio Starita. 1835.
4 Rimando al mio I fondamenti sensisti del pensiero leopardiano, in “Nuova Secondaria”, XXXIV, n.5, Gennaio 2017, pp. 56-59.
5 “Le cose ch’esistono non sono certamente per se nè piccole nè vili: nè anche una gran parte di quelle fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventù, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo nè il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo. Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch’egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benchè a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità.” Zibaldone, pp.2936-2938. (10 luglio 1823).
6 K. VOSSLER, Leopardi, Ricciardi, Napoli 1926; M. FUBINI, Metrica e poesia; lezioni sulle forme metriche italiane, Feltrinelli, Milano 1962, pp.65-70; A. MONTEVERDI, La falsa e la vera storia dell’Infinito, in ID., Frammenti critici leopardiani, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli 1967.
L. BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell’Infinito, Il Mulino, Bologna 1985.
7 K. VOSSLER, op.cit. p. 176.
8 “Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esser lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini sieno contraddittorii; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti.” Zibaldone, p. 4178 (2 Maggio 1826.).
9 Si pensi alla carica demistificatoria di testi come la Palinodìa al Marchese Capponi, I nuovi credenti e La Ginestra, e a operette come il Dialogo di Tristano e un amico.
10 A. CARACCIOLO, Leopardi e il Nichilismo, Bompiani, Milano 1994; E. SEVERINO, II nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, e Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997; L.CAPITANO, Leopardi. L’alba del nichilismo, Palermo 2010